La porta del sole
inizio proiezione ore 21.00
Cinquant’anni di sofferenze, di speranze e d’amore. La Palestina e il suo mezzo secolo di storia tragica, di sofferenza, di speranza e d’amore. Storie di combattenti, di case incendiate, di marce estenuanti per fuggire scandiscono l’epopea dell’esodo forzato di un popolo condannato alla miseria e alla precarietà dei campi profughi. Un popolo in attesa con un futuro sospeso. L’originalità della Porta del Sole, adattamento per il cinema del romanzo dello scrittore libanese Elias Khoury, è quella di saper intrecciare sullo sfondo degli avvenimenti storici il destino e il percorso individuale di uomini e donne, i loro incontri, le loro aspirazioni e speranze, i loro amori e le loro memorie. Come il romanzo a cui si ispira, l’opera cinematografica evita di seguire l’impostazione della retorica militante, trattando i palestinesi in quanto individui e non solo come causa. Si viene così a delineare un panorama complesso ed emozionante i cui protagonisti alternano la realtà alla memoria, la sofferenza all’amore, l’esaltazione dei miti alla difficile quotidianità. Al-Qattan è fermamente convinto di dover chiamare "palestinese ogni film impegnato con la Palestina, senza limitarsi alla denominazione per meri confini nazionalistici". Adottando la definizione di al-Qattan, possiamo capire come Bab el Shams sia considerato un film palestinese, pur avendo un regista egiziano e finanziamenti francesi. Selezionato a Cannes nel 2004.
GIOVEDI 17 NOVEMBRE 2016 - prima parte
GIOVEDI 15 DICEMBRE - seconda parte
La sposa di Gerusalemme
di Sahera Dirbass. 72', 2010
inizio proiezione ore 21.00
Gerusalemme è un soggetto costante della produzione culturale e artistica palestinese. Non potrebbe essere altrimenti alla luce dei legami storici, politici, religiosi e umani che tengono stretto un intero popolo intorno ad al Quds, così come in arabo viene chiamata Gerusalemme. Il fatto che dalla Guerra dei Sei Giorni (giugno 1967) tutta Gerusalemme sia controllata da Israele, ha accentuato le rivendicazioni dei palestinesi che intendono proclamare la loro futura capitale nel settore arabo (orientale) della città. Non sorprende perciò che anche il cinema palestinese, con documentari e fiction, abbia dedicato ampio spazio alla Città Santa, il più delle volte per raccontare la vita quotidiana e la resistenza degli abitanti della zona araba sotto occupazione israeliana. La città vecchia di Gerusalemme con i suoi problemi politici e sociali è il palcoscenico dove si muovono i protagonisti di «La sposa di Gerusalemme». Si tratta di un «docu-fiction», ossia di un film con parti recitate all’interno di una quadro assolutamente reale, che attraverso la vita e il lavoro di Riham, una giovane assistente sociale, racconta la difficile esistenza delle famiglie palestinesi nella casbah, dalla lotta contro il continuo tentativo di penetrazione dei coloni israeliani nei quartieri arabi fino al problema della tossicodipendenza sempre più diffuso tra i giovani. La regista evita di calcare la mano, sceglie toni lievi, lasciando a Riham, ai suoi familiari, al suo fidanzato (e poi marito) Omar e tutti agli altri protagonisti il compito di condurre quasi per mano gli spettatori lungo un percorso di vita che attraversa l’intera città vecchia. «La sposa di Gerusalemme» è una produzione palestinese totalmente indipendente. Gli attori, in buona parte giovani, vivono tutti nella casbah. Premio speciale dall’Associazione d’amicizia Sardegna-Palestina al festival al-Ard Doc Film
5 broken cameras
di Emad Burnat e Guy Davidi, 94'. 2011
inizio proiezione ore 21.00
Vincitore del Sundance Festival di Robert Redford, la pellicola racconta la crescita del figlio del primo ai tempi del muro voluto da Ariel Sharon. Con cinque telecamere, tante quante l'esercito israeliano gli ha rotto. Los Angeles e l’opulenza di Hollywood non hanno nulla a che vedere con il povero e angusto villaggio cisgiordano di Bili’n, ulteriormente rimpicciolito dalla costruzione del muro israeliano, che lo spacca in due. Eppure Emad Burnat, regista di 5 broken cameras, primo documentario palestinese candidato a un Oscar, non appena atterrato a Los Angeles con la moglie e il figlio maggiore, si è sentito “a casa”. Gli agenti addetti al controllo dei passaporti non hanno creduto alla motivazione della sua visita, nonostante il foglio d’invito dell’accademia per partecipare alle premiazioni, e lo hanno rinchiuso con la famiglia nella camera di sicurezza dell’aeroporto, nell’attesa del primo volo utile per Israele. “Sono abituato purtroppo a queste situazioni – ha spiegato il regista una volta rilasciato – alla lotta quotidiana per avere un minimo di diritti. L’occupazione israeliana non si limita a toglierci le terre, a distruggerci la casa, a mettere barriere e posti di blocco ovunque ma ci strangola attraverso la macchina burocratica. Ci vogliono permessi e contro-permessi per fare qualsiasi cosa”. Mentre si trovava rinchiuso, Burnat ha postato un tweet e mandato un sms al suo collega-amico ben più noto, Michael Moore, che ha subito chiamato i legali dell’accademia per chiedere di intervenire. “Il problema è che qui nessuno ritiene verosimile che un palestinese possa essere candidato a un Oscar ”, ha risposto Moore. Burnat non aveva mai pensato di fare il regista. Avrebbe invece voluto continuare a lavorare il piccolo appezzamento di terreno della sua famiglia ma la costruzione del muro decisa nel 2005 dall’ex premier israeliano Ariel Sharon, ha scombinato tutti i suoi piani: il suo terreno è stato confiscato assieme agli uliveti e vigne della maggior parte dei suoi concittadini. Da allora ogni venerdì a Bili’n si tengono manifestazione pacifiche di protesta a ridosso del muro che spesso finiscono in tragedia per la reazione dei soldati israeliani. Fu proprio dopo l’uccisione di un amico, colpito in pieno petto da un lacrimogeno, che il giovane contadino decise di utilizzare la piccola telecamera, acquistata allo scopo di filmare la crescita dei suoi figli per denunciare la violenza nei confronti dei suoi concittadini. Ma i soldati e i coloni non appena si accorgevano di essere ripresi, gli rompevano la telecamera. Un fatto accaduto ben cinque volte: da qui il titolo del documentario. Che porta la firma anche di Guy Davidi, un filmaker attivista israeliano, diventato amico di Burnat durante i mesi in cui si era trasferito a Bili’n per documentare gli effetti perversi dell’occupazione. Davidi ha smistato il materiale, che include anche momenti di vita familiare del regista, e deciso come montarlo. World Cinema Directing Award at the Sundance Film Festival in 2012. / Special Broadcaster IDFA Audience Award and the Special Jury Award at the International Documentary Film Festival Amsterdam in 2011. / Golden Apricot at the 2012 Yerevan International Film Festival, Armenia, for Best Documentary Film. / Nominated for Best Documentary Feature in the 85th Academy Awards.
GIOVEDI 19 GENNAIO 2017
GIOVEDI rinviato 2017 - proiezione rinviata -
Sono entrato nel mio giardino
di Avi Mograbi. 97 min. Israele, Francia, Svizzera 2012
inizio proiezione ore 21.00
Ali Al-Azhari siede nella cucina di casa sua e parla dritto in camera, dietro all'obiettivo il regista israeliano Avi Mograbi, suo ex studente di arabo, che gli propone di girare un film insieme. Tra i due amici c'è complicità e distensione, sebbene tra le loro parole, presto, si faccia spazio l'ombra dello scontro che ha alla base le mire territoriali successive all'istituzione dello stato di Israele (1948). Dopo aver passato in rassegna le foto di famiglia di Avi, alla ricerca di un passato che non ha conosciuto, i sopralluoghi arrivano fino al villaggio in cui è nato Ali, più tardi interdetto agli arabi. Come spiega Ali Al-Azhari alla figlia Yasmin, un documentario è “un film che parla di ciò che succede davvero”. Senza nessuna mediazione o ricostruzione, basta saper rispettare e poi mettere in immagine ciò che si ha intorno: questo lavoro che somma ad una regia solo apparentemente estemporanea il trascinante rapporto tra i due protagonisti riesce nell'obiettivo, muovendosi tra le pieghe del presente per scavare, invero, nelle sue radici. Ancora a lavoro sul conflitto arabo-israeliano, l'autore di Z32 plasma una testimonianza pubblico-privata che mette nero su bianco il paradosso di una terra lacerata dall'interno, seguendo tre diverse linee. L'amicizia formalmente vietata tra l'arabo Ali e l'ebreo Avi, l'inchiesta sulla famiglia di quest'ultimo e il racconto – in voice over e su immagini urbane – di un amore lontano nel tempo cui il ridisegno dei confini mediorientali ha tarpato le ali, infatti, convivono insieme al fine (teorico) di ribadire quanto lo scambio vicendevole tra le parti e il dialogo siano gli unici antidoti allo scontro. In uno dei momenti più toccanti, lo stesso Mograbi racconta al professore-maestro di essersi innamorato di un'araba con cui potrebbe andare a vivere solamente lontano dalla sua terra, provando ancora sulla pelle il distacco e la mancanza di senso del tutto. All'ampiezza e alla complessità del discorso portato avanti si oppone una scioltezza che trasforma l'insolito film-sopralluogo in un giardino, sospeso tra ricordo e sogno, dove la speranza per un cambiamento non è del tutto perduta. Per il cineasta, senza dubbio, è ancora legata ai più giovani: come Per uno solo dei due miei occhi si chiudeva con la dedica “A mio figlio e ai suoi amici che si rifiutano di imparare ad uccidere”, Sono entrato nel mio giardino – titolo della canzone che scorre sui titoli di testa – è idealmente dedicato alla piccola Yasmin, figlia di padre arabo e madre ebrea, che supera la diffidenza e il razzismo dei compagni di classe e guarda dritta verso un futuro diverso. Doclisboa International Film Festival 2013, Special Jury Award. Hamburg Film Festival 2013 , Nominated Political Film Award. Rome Film Fest 2012, Nominated CinemaXXI Award. Yamagata International Documentary Film Festival 2013, Nominated Robert and Frances Flaherty Prize
GIOVEDI rinviato 2017
GIOVEDI 20 APRILE 2017
Palestine stereo
di Rashid Masharawi - Palestina, Tunisia, 2014 - 90'
inizio proiezione ore 21.00
Palestine Stereo sembra il nome di un negozio di musica. Ma nel nuovo film di Rashid Masharawi, il suo sesto lungometraggio, Palestina Stereo è un personaggio, un ex cantante di nozze. Stereo si da’ da fare intorno a Ramallah in un ambulanza di seconda mano, che fornisce sistemi audio per funerali, compleanni e manifestazioni politiche. Stereo (Mahmoud Abou Jazi) ha perso la moglie quando gli aerei israeliani hanno bombardato la sua casa. Suo fratello, il ricciuto Samy (Salah Hannoun), è un elettricista che ha perso l’udito e la sua capacità di parlare nello stesso attacco. Ora Samy scarabocchia messaggi sui muri della famiglia. Demoralizzati, entrambi i fratelli hanno ora un unico obiettivo, emigrare in Canada. La satira di Masharawi è personale, ma per la maggior parte non autobiografica. Nei Territori palestinesi, ha detto il regista nato a Gaza, parlando dalla sede del suo produttore in Tunisia, la vita è in stereo, confusa – i molteplici canali non necessariamente dicono la stessa cosa.“Abbiamo molte voci in Palestina provenienti da luoghi diversi – dice Masharawi – Siamo sotto occupazione con due Stati: …Uno a Gaza e uno in Cisgiordania. L’idea di stereo è sul suono, non è solo il nome di un personaggio”. Mentre Stereo deride i leader politici, sincronizzando il labiale dei loro discorsi dai suoi controlli audio, il muto Samy non può sentire. Entrambi i personaggi vivono un trauma e inseguono un sogno. “Vogliono evadere dalla loro realtà, dalla loro storia,” Masharawi, 51 anni, ha spiegato, descrivendoli come paradossali, ma esempi tipici. “Sei in esilio nella tua stessa casa, e pensi che la tua patria sia da qualche parte altrove, mentre allo stesso tempo, ogni giorno, la storia prosegue, e tu partecipi alla tua vita reale.”Premi: Mention spéciale | Festival International du Film de Hong Kong 2014 / Award Toronto International Film Festival/United Arab Emirates/Windows 7 / Contemporary World Cinema/ Sélections officielles Festival International du Film de Dubaï 2013/ Contemporary World Cinema
GIOVEDI 18 MAGGIO 2017
Rendez-vous à Atlit
di Shirel Amitay. 91' - Israele, Francia 2015. Israele, 1995
inizio proiezione ore 21.00
La pace è finalmente all’orizzonte quando, nella piccola città di Atlit, Cali ritrova le due sorelle Darel e Asia per vendere la casa ereditata dai genitori. Tra complicità, risate, rancori e strani ospiti che seminano un allegro disordine, ritornano in superficie dubbi e vecchie questioni, che fanno sembrare la convivenza un felice guazzabuglio. Il 4 novembre, però, il processo di pace viene compromesso ma le tre sorelle si rifiutano di abbandonare le loro speranze. Una cronaca familiare dolce amara che racconta con uno stile poetico e fantastico, senza perdere di vista la realtà, ferite e fratture che hanno incrinato un fragile processo di pace.
GIOVEDI 15 GIUGNO 2017
Stato Unico, Conversazione Potenziale
di Eyal Sivan. 2013. 124'
inizio proiezione ore 21.00
Il regista propone una messa in scena di parola e ascolto. Mentre l'uno parla, l'altro ascolta: "La parola evolve per assumere la forma di una proposta politica, non attraverso il discorso in sé, ma nel modo in cui nasce il legame nella realtà, pensando per immagini. " Con Stato Comune, Conversazione Potenziale, il regista consente agli spettatori di riflettere su come le persone possano vivere insieme e il film diventa, quindi, un strumento politico: “Il film è l'opposto di tentativi pretenziosi condotti da anni nel tentativo di costruire una sorta di rapporto tra posizione estetica e posizione politica intorno a quello che è forse il fatto storico più rappresentato nel mondo, il conflitto israelo-palestinese”
The Killing Zone
2003 – 49' - Sandra Jordan e Rodrigo Vazquez
inizio proiezione ore 21.00
La vita a Gaza è una costante sfida al fuoco dei cecchini israeliani, ai razzi militari e ai buldozers dell'esercito israeliano. Nessuno è al sicuro. Questo documentario svela lo sconvolgente livello di violenza e di odio omicida nella Striscia di Gaza. Civili palestinesi che vivono sotto la costante minaccia di attacchi militari. Ma non solo, anche occidentali sono sotto attacco da parte dell'esercito israeliano. La scuola di Huda è a Rafah ed è gestita dalle Nazioni Unite in un grande spazio aperto, ma una postazione militare israeliana è situata a soli 500 metri di distanza. Come entriamo in classe, una granata esplode nelle vicinanze. I bambini terrorizzati fuggono sotto i loro banchi. Una ragazzina è così traumatizzata, è in stato di shock. Il loro insegnante dice che questo accade continuamente. Quasi ogni giorno, le truppe israeliane lasciano la loro base a Rafah per andare a demolire con i loro buldozer le case dei palestinesi oltre il confine. "Questa è una zona di combattimento" spiega il colonnello Pinky Zoaret. Egli dice che si devono distruggere le case di negare la copertura ai terroristi. Ma la maggior parte delle case appartengono a comuni cittadini palestinesi. Migliaia hanno perso le loro case. E non c'è nessun risarcimento per i senza tetto. Coloro che cercano di fermare la violenza possono finire per pagare con la loro vita.
Rachel Corrie era uno di loro. Ha portato il dramma dei palestinesi all'attenzione del mondo ed è morta, schiacciata da un bulldozer israeliano mentre cercava di proteggere un edificio. L'IDF sostiene che è morta a causa del proprio irresponsabile e illegale comportamento. Ma testimoni oculari raccontano una storia diversa. "Il conducente poteva vedere chiaramente che lei era lì", afferma la sua amica. "Ma invece di fermarsi, è andato avanti".
Mesi dopo, il fotografo inglese Tom Hurndall è stato colpito mentre cercava di salvare una bambina di sei anni dai colpi di armi da fuoco.
Poi il cameraman James Miller, ucciso dal fuoco israeliano. "James è morto perché noi confidavamo nel fatto che loro si sarebbero comportati come un esercito civile. Sapevamo che potevano vedere che non eravamo armati e che portavamo una bandiera bianca. Credevamo che non ci avrebbero ucciso in queste circostanze, ma hanno sparato James comunque", afferma la suo collega Saira Shah. Gaza resta ancora una zona di combattimento.
Un incisivo spaccato di vita nei territori occupati, che mostra il vero costo della politica d'Israele.
GIOVEDI 20 LUGLIO 2017
Omar
di Hany Abu-Assad. 97'. 2013
inizio proiezione ore 21.00
Omar è un giovane fornaio palestinese abituato a scavalcare il muro della separazione, schivando proiettili e sorveglianti, per far visita alla ragazza di cui è innamorato, la liceale Nadia. Con il fratello di Nadia, Tarek, e un terzo compagno, Amjad, Omar condivide un'amicizia decennale e un'attività clandestina di addestramento per la causa della liberazione della Palestina. Caduto prigioniero, dopo aver partecipato all'uccisione di un soldato, Omar resiste alla tortura e viene invitato a scegliere tra il carcere a vita o la collaborazione con la polizia israeliana. Il regista di Paradise Now torna in Palestina e gira tra Nablus, Nazareth e Bisan con una troupe esclusivamente di locali, molti dei quali alla prima esperienza. Eppure il risultato è solido, il ritmo incalzante, le performances dei quattro protagonisti (tutti esordienti) non meno che sorprendenti. Il risultato più alto, in tutti i casi, è la mescolanza riuscita di veridicità delle immagini e delle storie raccontate con lo spettacolo del ritmo e della tensione che la regia sa assicurare. Hany Abu-Assad non giudica, non esalta né demonizza: nel racconto di un amore confidente e tragico trova tutti gli ingredienti che gli bastano per assicurarsi un fondo sicuro ed emotivo sul quale innestare elementi di genere (spie, tradimenti, doppiogiochismo), sempre e comunque aderenti al contesto e umanamente credibili. La sensazione di trappola autodistruttiva in cui si ritrova in breve il protagonista è chiaramente una metafora della situazione palestinese sotto l'occupazione, ma l'intelligenza del regista sta nel non presentarla come una premessa, bensì di seguire passo passo l'avvilupparsi su se stesso del destino di Omar e della sua Giulietta, fino alla scena emblematica in cui scalare il muro non è più un gioco da "ragazzi", perché certe energie sono state spente per sempre.Forse Omar non possiede il miglior finale possibile, ma è nell'immagine iniziale della barriera divisoria che sta il senso di quel che racconta per tutti i minuti a venire: i palestinesi sono separati tra loro (amici, amanti, famigliari) da un atto di forza a cui non hanno i mezzi per opporsi. Per questo, pur mantenendo la sospensione del giudizio e mostrando luci e ombre della gioventù che ritrae, la posizione di Abu-Assad è meno imperscrutabile rispetto a quanto accadeva in Paradise Now e il film ne guadagna, apparendo meno mirato a dividere e più interessato a raccontare. PREMI: Asia Pacific Screen Awards 2013 Best Film - Asian Film Critics Association Awards 2014 NETPAC Award - Camerimage 2014 - Cannes Film Festival 2013 Un Certain Regard - Special Jury Prize - Dubai International Film Festival 2013 Muhr Arab Award - Ghent International Film Festival 2013 Youth Jury Award - Human Rights Nights Film Festival 2014 HRNs People Best Movie - Traverse City Film Festival 2014 Best Drama Founders Prize - Tromsø International Film Festival 2014 Norwegian Peace Film Award
GIOVEDI 21 SETTEMBRE 2017